Aviazione, incidenti e decisioni difficili
Impariamo dagli errori
Tra tutte le decisioni che siamo chiamati a prendere ogni giorno, forse la più difficile è quella di rinunciare. Rinunciare a fare qualcosa, rinunciare a un programma, a un progetto, a un affare.
Mi pare che questo avvenga sia nel privato (relazioni, famiglia, sport) sia nel pubblico (lavoro, professioni, società).
Ci sono alcuni casi che fanno scuola in Aviazione e che sono spesso citati quale esempio negativo nella Sicurezza del Volo e nel Crew Resource Management. Sono fonti preziose per imparare.
In particolare, vorrei soffermarmi su tre incidenti:
- Tenerife, Canarie, Marzo 1977.
- Smolensk, Russia, Aprile 2010.
- Medellín, Colombia, Novembre 2016.
In tutti e tre gli incidenti se il comandante avesse “rinunciato” probabilmente tutte quelle vite umane si sarebbero salvate.
Prendiamo il primo caso: Tenerife (Canarie, Spagna), 27 Marzo 1977.
Due Jumbo (Boeing 747) si trovano in un aeroporto alternativo, diverso dalla destinazione programmata, poiché su quest’ultima c’è stata una minaccia di attentato e tutto il traffico è stato dirottato. Ora però sono pronti a ripartire. Una serie di fattori (come la nebbia presente sull’aeroporto che riduce la visibilità) e alcuni errori (sovrapposizione e indisciplina delle comunicazioni radio, carente lavoro di squadra, scarsa consapevolezza della situazione e insufficiente assertività) permettono all’Errore l’attraversamento dei Buchi allineati del “Formaggio Svizzero” (l’Emmental ideato da J. Reason nel 1990 per visualizzare la traiettoria dell’errore).
Il comandante del jumbo, sotto pressione (auto-indotta?), decide di decollare quando la pista in realtà è ancora occupata da un altro jumbo, con visibilità ridotta a causa della nebbia. Si realizza così la catena perfetta degli eventi. Risultato: il più grande incidente nella storia dell’aviazione. Domandiamoci: cosa ha spinto quel Comandante ad agire di impulso e voler decollare senza consultarsi con il suo copilota? Cosa ha impedito a quel copilota di intervenire con fermezza su questa scellerata decisione? Forse la possibilità di vedersi costretto di lì a pochi minuti a cancellare il volo a causa del superamento del massimale delle ore di servizio dell’equipaggio, dovendo così alloggiare i passeggeri in albergo a spese della compagnia? Se quel comandante e quel copilota avessero avuto una formazione diversa, fatta non solo di “decisionismo” ma anche di dubbi e di rinunce questo incidente sarebbe avvenuto comunque?
Il Comandante avrebbe avuto la forza di chiedere: “Siamo autorizzati al decollo?” Forse il suo Copilota avrebbe risposto: “Non mi pare” (sembra che un dubbio lo abbia sollevato il Flight Engineer, il tecnico di bordo, ma forse in maniera non così incisiva). L’ipotetica conclusione felice sarebbe stata “Questa situazione non mi piace” “Stop take off (“ferma il decollo”), chiedi conferma alla Torre di Controllo se siamo autorizzati”. Avrebbero perso solo un minuto (il tempo che l’altro jumbo avrebbe impiegato per uscire dalla pista) e sarebbero tranquillamente decollati per raggiungere la destinazione finale. Ma erano anche altri anni, anni in cui il Comandante era percepito come infallibile e nessuno poteva mettere in dubbio le sue decisioni.
Il secondo caso: Smolensk (Russia), 10 Aprile 2010, aeromobile Tupolev 144.
Sull’aereo militare proveniente da Varsavia sono presenti molte autorità e membri del governo polacco perché è stata organizzata un’importante celebrazione in ricordo di un eccidio avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale (Il Massacro di Katyn). Anche in questo caso, a destinazione è presente la tipica minaccia aeroportuale: la nebbia che riduce la visibilità a 200 mt. La nebbia sugli aeroporti non è un fatto insolito, non è un errore; è una minaccia, un’eventualità di cui bisogna tenere conto. Sull’aeroporto di Smolensk i sistemi per l’atterraggio strumentale con visibilità ridotta erano del tipo “non precision”, ovvero garantivano sicurezza per l’atterraggio solo con visibilità di almeno 1000 mt e una discesa non al di sotto dei 100 mt di quota se non si aveva a quel punto la pista in vista. Anche in questo caso si può intravedere una forte “pressione”: in cabina di pilotaggio si è recato il Capo di Stato Maggiore dell’Aviazione Militare Polacca e ci sono numerose conversazioni con il responsabile del Protocollo della cerimonia (anch’egli in cockpit).
Il Comandante del volo deve decidere se continuare l’avvicinamento oppure rinunciare. Continua, scende sotto la quota minima di separazione dagli ostacoli nonostante non abbia la pista in vista e, a quel punto, succede l’inevitabile; né lui né il resto dell’equipaggio e dei passeggeri torneranno più a casa.
Chiediamoci: perché tenta l’atterraggio anche se realisticamente non ci sono condizioni di sicurezza, non c’è visibilità sufficiente? Perché scende sotto la quota minima consentita? Perché non rinuncia e non va all’aeroporto alternativo?
Forse perché la “pressione” lo sovrasta e nonostante gli avvisi sonori degli strumenti e l’avviso del Copilota “Go around! Go around” (“riattacca, dai motore e sali!”) decide di non rinunciare. Sarebbe bastato un: “Mi dispiace, signori, dobbiamo rinunciare, non ci sono le condizioni”. Magari fosse successo questo, magari.
Ultimo caso, il più recente: Medellín (Colombia, Sud America), 28 Novembre 2016, volo LaMia 2933, velivolo Bae 146.
Anche qui una serie di coincidenze, una serie di fattori si allineano e succede il peggio.
Il Comandante di un volo charter noleggiato da una società di calcio decide che il carburante imbarcato per fare l’ultima tratta è sufficiente. Aveva inizialmente pianificato un’altra rotta e uno scalo intermedio per fare rifornimento ma tale sosta avrebbe portato a destinazione la squadra di calcio in ritardo e con il ritardo che ha già accumulato… Questa scelta viola una norma ben precisa, che prevede di imbarcare una quantità di carburante totale comprensiva della riserva per una eventuale attesa sulla destinazione in aggiunta a quello eventualmente necessario per andare ad un aeroporto alternativo, oltre naturalmente a quello che occorre per fare il volo dalla partenza alla destinazione e un quantitativo di emergenza (previsto dalla normativa). A questo quadro si aggiunge poi il problema del peso massimo consentito al decollo.
È così rifornito solo il carburante per il volo, senza riserve.
E allora cosa succede? In sintesi, il velivolo arriva in prossimità dell’aeroporto di destinazione ma l’atterraggio viene ritardato a causa di altro traffico che lo precede (che aveva priorità per una sospetta perdita di carburante). Il Comandante decide, solo dopo alcuni minuti, di comunicare i problemi di carburante ma quando finalmente inizia la discesa per l’atterraggio, i motori, uno alla volta, inesorabilmente si spengono. L’aereo si schianta con i motori spenti, con la spia del basso livello carburante accesa, di notte, a una ventina di chilometri dall’aeroporto. Questa non sembra essere sfortuna ma piuttosto negligenza, violazione delle norme e soprattutto frutto di decisioni errate. Avrebbe avuto un’ultima chance: dichiarare l’emergenza al controllo del traffico aereo ben prima: “may day-may day-may day”. Avrebbe avuto così priorità su tutto il traffico dell’area e forse avrebbe toccato l’asfalto della pista con i motori ancora funzionanti. Ma ciò significava far sapere al mondo che la sua pianificazione, le sue decisioni e il suo comportamento erano stati inadeguati, non professionali, proprio perché lo avevano portato al punto di arrivare a destinazione con zero carburante. Anche in questo caso è facilmente individuabile lo zampino della pressione.
La decisione più difficile
Oggi a distanza di tempo (e tralasciando alcuni dettagli), con le carte delle commissioni d’inchiesta sottomano è facile avanzare giudizi e scrivere sentenze di condanna su questi tre casi.
Ma non è questo il punto. Il punto è che non possiamo fare a meno di imparare la lezione da quello che è successo agli altri. Domandiamoci: quante volte siamo rimasti vittime della “pressione” (spesso auto-indotta) che ci ha tolto la consapevolezza della situazione? Quante volte a causa di questa abbiamo preso piccole o grandi decisioni sbagliate? Perché non abbiamo trovato la forza di rinunciare? Non ci interessano i nomi e le colpe, ci interessano i fatti. E i fatti ci confermano che l’uomo a volte sbaglia a non rinunciare. Anche rinunciare è decidere, ed è forse la decisione più difficile che ci possa capitare di prendere.
Fabio Cassan è un ex ufficiale pilota militare ed ex comandante pilota di linea.
Da anni collabora con Nive, in particolare per gli aspetti riguardanti il Fattore Umano e le Non Technical Skills